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Maria Lai, bambina antichissima

  • Immagine del redattore: Erika Di Felice
    Erika Di Felice
  • 17 nov
  • Tempo di lettura: 4 min

È da poco passata l’ondata social sollevata dall’installazione luminosa di Marcello Maloberti nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia - la grande scritta al neon della parola “poesia” capovolta, tenuta in piedi da tubi innocenti per alludere ad un’idea di provvisorietà, in un contrasto voluto tra la contemporaneità della luce come mezzo espressivo e l'antichità del monumento - e io mi chiedo: ma davvero basta scrivere “poesia” affinché la poesia "accada"?

Quella poesia che, come dice Milo De Angelis, è una «creatura selvatica e imprendibile», che gioca a nascondino, che colpisce da lontano con il suo arco sacro, lasciandoci a guardare la freccia che vibra nel tronco, senza sapere chi è l’arciere?

Ecco, se è questa la poesia di cui parliamo e quella che cerchiamo di evocare, ancor più se con l'utilizzo della parola come oggetto, la prima risposta che mi viene in mente è il nome di Maria Lai.

Originaria di Ulassai, piccolo comune sardo nella provincia di Nuoro, Maria Lai, minuta e stracolma di vita, ha in sé qualcosa che mi risuona nel profondo: le scorrono nelle vene la sua terra e la montagna, i precipizi e gli strapiombi, e la anima una sapienza ancestrale, come quella dei bambini o di chi ha già vissuto un numero di vite imprecisabile – non a caso si definiva una “bambina antichissima”.

Intrisa delle leggende della sua tradizione popolare, assume a totem, come dichiarazione della sua poetica, un telaio ingombro di fili spezzati e scomposti (Oggetto-paesaggio, 1967), attribuendo all'arte la principale funzione di legare, cucire, riparare, annodare saldamente.

Dai Telai nascono le sue Tele Cucite, nelle quali continua a vivere il mondo arcaico dell’arte tessile della Sardegna, e successivamente le Scritture, da cui, alla fine degli anni Settanta, discendono i Libri, ovvero fiabe visive create con tessuti di riuso, tra cui Tenendo per mano l’ombra (1987), sulla necessità di accettare il negativo che ci abita.


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Maria Lai, Tenendo per mano l'ombra (1987), stoffa e filo, Milano, collezione privata, foto tratta da <www.artslife.com>


È nelle fiabe che si attua una vera e propria ibridazione tra parole e immagini: il filo, che diventa uno strumento di scrittura al pari dell’inchiostro, compone parole, dà vita alle frasi, straborda dalla pagina, invade il piano di realtà. Nel suo essere sacralmente tessitore di trame e relazioni, arriva anche a definire, in Legarsi alla montagna, un nuovo modo di fare esperienza del mondo.

L'opera viene commissionata a Maria Lai dal sindaco di Ulassai come monumento ai caduti, ma l'artista rinuncia a qualsiasi idea di monumentalità, alla quale oppone un intreccio di fiaba e leggenda, elaborando un'opera di carattere ambientale e comunitario che diventa motivo di crescita condivisa e cambiamento sociale, non in un ipotetico futuro ma nel presente.

L'operazione artistica parte da una delle narrazioni della tradizione orale del paese, che Maria Lai ricostruisce così:

Si racconta che una bambina (l’essere più indifeso) fu mandata sulla montagna (il luogo più minacciato) a portare del pane ai pastori (il pretesto meno convincente). Appena giunta, impaurita dalla voce del tuono, trova greggi e pastori rifugiati in una grotta a causa di un temporale. Mentre guardano l’arrivo della pioggia che trascina sassi, vedono passare, portato dal vento, un nastro celeste. Per i pastori questa immagine è una sorpresa fugace, forse per loro un fulmine, ma niente che sia più importante, in quel momento, del pericolo che incombe su di loro. Per la bambina è uno stupore che la trascina fuori dal rifugio, verso la salvezza, mentre frana la grotta con greggi e pastori.

Così, l'otto settembre del 1981, un nastro celeste - 26 chilometri ricavati da rotoli di denim donati dall'unico commerciante di stoffe del paese - viene portato da tre scalatori fin sulla cima della montagna e in seguito fatto scendere per attraversare e legare tutto il paese.

Ma l'opera, scevra da qualsiasi postura moralistica o sentimentalista, non cerca di semplificare la complessità delle relazioni tra gli abitanti e, affinché non si tradisca la verità dei reali rapporti tra le famiglie, un nodo del nastro tra le porte viene posto ad identificare le case le cui famiglie erano legate da amicizia, nessun nodo per le famiglie separate da rancori, un pane delle feste legato d’azzurro dove c’è amore.


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Maria Lai, Legarsi alla montagna (1981), foto tratte da <www.antinomie.it>


Legarsi alla montagna, prima opera d'arte comunitaria, viene presto riconosciuta dalla critica come uno spartiacque nella storia dell’arte: segna la differenza tra le operazioni sul territorio e gli interventi site specific, che negli anni Sessanta e Settanta esprimono ancora l’affermazione soggettiva e individuale dell’artista, spostando l'attenzione sul coinvolgimento diretto di chi è estraneo al mondo dell’arte, della comunità intera di cittadini, facendo della narrazione un mezzo per concretizzare tale coinvolgimento.

Maria Lai aveva capito, infatti, che l’arte non è autorappresentazione, ma relazione e che il suo scopo era servire alla vita, non appena emozionare.

Ecco, forse di fronte all'eccessiva semplificazione delle narrazioni, affinché la poesia si manifesti occorre proprio che la materia della parola venga plasmata nel silenzio, senza clamore, con una sapienza antica, che non abbia smania di proclamarsi arciere al minimo scocco della freccia (citando De Angelis), ma che sappia nascondersi - perfino scomparire - nell'intreccio di un'invisibile trama di infinito.

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