La finestra come rappresentazione del mondo
- Erika Di Felice

- 3 nov
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 16 nov
Indubbiamente dal punto di vista compositivo, la finestra, in quanto foro che consente la comunicazione tra un interno e un esterno, è l’elemento che, per semplificare molto i termini della discussione, permette – o viceversa protegge da – l’ingresso della realtà nell’ambiente domestico. Ed è altrettanto indubbio che dal punto di vista progettuale per gli architetti la collocazione di una finestra in un punto piuttosto che in un altro della facciata ha sì delle motivazioni di tipo normativo, date dall’impossibilità di utilizzare in maniera indiscriminata gli affacci, ma prima ancora possiede delle giustificazioni di carattere intenzionale.
È pacifico ormai che la comprensione di un progetto, soprattutto di quelli della cosiddetta architettura moderna – e ancora di più di quella contemporanea, passa attraverso un processo di “storicizzazione”, ovvero di studio e comprensione dei fattori tecnologici ma soprattutto intenzionali alla base di un progetto. E la finestra ha questa duplice valenza.
Pensando alla tecnologia di questo oggetto, non possiamo fare a meno di pensare a Le Corbusier, uno dei padri dell’architettura moderna, antesignano nel cogliere l’importanza compositiva della finestra, tanto da farne uno dei punti del suo personale manifesto dell’architettura moderna (la cosiddetta finestra a nastro), non tanto considerando la compiutezza raggiunta nella Ville Savoye, ma risalendo all’origine del concetto, ovvero alla Petite Maison (Villa Le Lac) che realizza per il padre sulla riva del Lago Lemano in Svizzera.

Le Corbusier, la finestra sul lago della Villa Le Lac, 1923-1924. Foto tratta da <es.pinterest.com>
Qui Le Corbusier utilizza le finestre come vera e propria delimitazione del punto di vista, soprattutto nella realizzazione della stanza all’aperto, una sorta di ossimoro progettuale nel quale la finestra e la sua funzione di proiettare lo sguardo in punti determinati del paesaggio sul lago vengono rese in forma archetipica, simbolica. E non è il solo progettista a concepire la finestra al centro dei suoi progetti: si dice, infatti, che Rietveld, l’architetto olandese reso famoso dalla sedia Red and Blue, nonché progettista di circa un centinaio di case nei Paesi Bassi, girasse sui suoi cantieri con il telaio vuoto di una finestra sotto il braccio, in modo da verificare seduta stante quale sarebbe stata la visuale dalle future aperture che prevedeva di creare nei muri.
Lo stesso Mario Botta, per citare un altro grande architetto contemporaneo, sostiene in un’intervista che «la casa è uno strumento di lettura del paesaggio», per cui la collocazione dei pieni e dei vuoti – e ancor più di quelli che interessano l’involucro dell’oggetto edilizio, in architettura non ha nulla di casuale, non può avere nulla di casuale.
Ciò che i grandi architetti hanno saputo cogliere, infatti, è la tensione erotica di cui parla il poeta Andrea Zanzotto che si stabilisce tra l’io e il paesaggio, cioè quella tensione tra Poros e Penìa che si instaura nell’osservatore nel tentativo di cogliere il mistero di ciò che gli sta davanti e che sempre gli sfugge. Ed è proprio questo l’atteggiamento poetico dell’architettura: l’atto della creazione attraverso il progetto (e torniamo all’intenzionalità dell’architetto) le basi per la manifestazione dell’inatteso, per la creazione di uno squarcio di divino nella realtà della materia.


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